« Ils avaient l’art de vous faire croire que vous serez une vraie petite sainte et une épouse généreuse de Jésus, car vous faisiez la volonté de Dieu et vous participiez au plan que Dieu a sur l’humanité : que tous soient un. »
« Quella notte mi sono addormentata solo dopo aver avuto la certezza che nessuno aveva il diritto di violare in quel modo quanto avevo di più caro : la mia coscienza, dove risiedeva il mio vero Io. »
« Laurette », ex-Focolarina (Opera di Maria/Movimento dei Focolari), 15 gennaio 2013
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Une ex-focolarine a bien voulu témoigner de son expérience au sein du mouvement. Et il lui faudra bien du courage pour briser le silence lorsqu’elle avait appris à se taire par obéissance, pensant ainsi faire la « volonté de Dieu ». Et il lui faudra bien du courage pour oser reprendre sa vie en main, par fidélité à soi et non plus aux « supérieurs ».
De l’emprise à la liberté…
TESTIMONE
« La mia esperienza nel movimento dei Focolari dal 1991 al 2007
Cercherò di descrivere la mia esperienza nel movimento con lo sguardo di oggi. Ho lasciato il focolare nel 2007 e da allora vivo di nuovo una vita normale, con le piccole gioie e anche i dolori che danno colore alla mia vita quotidiana. Guardo al mio passato con occhi diversi; ho come l’impressione di aver vissuto tutti questi anni (nel focolare) in coma e che grazie a un avvenimento ho cominciato a riprendere coscienza reale della mia vita.
Durante gli anni che ho trascorso nel focolare non ero più me stessa; con il passare del tempo i superiori nella gerarchia sono riusciti ad annientare la mia vera personalità, ma non a farla morire completamente – così la mia vita e il mio vero Io si sono salvati. A volte mi rimprovero di essermi lasciata intrappolare all’interno di questo movimento, in quanto ho abbandonato molti dei miei progetti, ma è stata un’esperienza che fa parte della mia vita. Grazie alla mia forte personalità e al mio spirito critico, ho saputo venirne fuori al momento giusto e ritrovare il mio vero Io, ciò che sono di nuovo adesso.
Occorre sapere che il movimento dei focolari e la vita all’interno del focolare sono presentati all’esterno come una forma di vita basata sull’insegnamento di Gesù, ma in chiave moderna: viviamo in delle case, lavoriamo, facciamo sport, politica, attività ricreative, ecc. Insomma, ci confondiamo nella massa.
È proprio questa idea che mi ha attirato, ma una volta intrappolati nelle maglie della rete è più difficile liberarsi. Anche se per nove anni sono stata immersa in una vita comunitaria all’interno di un focolare, il fatto di esercitare la mia professione mi lasciava una porta aperta verso l’esterno, restavo in contatto con il mondo di oggi. In questo modo ho mantenuto aperto il mio spirito critico, nonostante le limitazioni, poiché eravamo tenute a evangelizzare il nostro ambiente di lavoro con il nostro modo di fare e di vivere.
Sono entrata nel movimento all’età di 22 anni in occasione della GMG in Polonia (1991), alla quale ero stata invitata insieme a molti altri giovani. Poiché avevo da sempre una fede salda – andavo regolarmente a messa, ma anche le mie azioni quotidiane con le persone che mi circondavano erano « guidate » da questa fede che sorgeva dal mio cuore e dalla mia coscienza – mi sentivo davvero a mio agio in mezzo a tutti questi giovani.
In più avevo trovato delle persone con le quali potevo discutere e condividere la mia fede. Ovviamente dopo questo viaggio desideravo rimanere in contatto con loro e la ciliegina sulla torta era il fatto di poter continuare a coltivare liberamente le mie amicizie e i miei interessi: partecipavo ad attività teatrali, uscivo in discoteca con le amiche, viaggiavo, avevo il lavoro dei miei sogni. Parlo di questo perché durante il nostro viaggio, dei giovani del movimento ci raccontavano le loro esperienze di vita, parlandoci dei loro atti eroici nel rinunciare a ogni sorta di cose per seguire Gesù e costruire un mondo unito.
Quindi per me il sentirmi dire dalle persone responsabili (le focolarine) che non dovevo rinunciare a niente per aderire al loro movimento era davvero il massimo.
Ma siccome avevo una fede salda – e le focolarine l’avevano capito molto in fretta – sono riuscite poco a poco a conoscermi bene allo scopo di «catturarmi» per la loro causa. Mi spiego: ero ansiosa di poter condividere di più sulla vita di Gesù e quindi loro mi invitavano a degli incontri di approfondimento.
Nello stesso tempo, mi piaceva l’azione, la vita, e quindi partecipavo a delle azioni con i giovani per trovare soldi da destinare alla gente in difficoltà, ecc. Sono una persona generosa, e poiché guadagnavo bene, donavo volentieri i miei soldi per una buona causa. Ho inoltre un carattere molto aperto, dico quello che penso, parlo delle mie convinzioni, dei miei sentimenti, tendo subito a fidarmi della bontà altrui – insomma, all’epoca ero molto ingenua per quanto riguarda le relazioni umane, soprattutto perché ritenevo che le persone del movimento fossero dalla mia parte… Tutti elementi che le focolarine hanno sfruttato per cucinarmi a fuoco lento. Nel giro di due anni, ci sono riuscite: di mia spontanea volontà ho abbandonato la famiglia, il lavoro, gli svaghi, le amiche, la patria, per dedicarmi interamente al movimento.
Dopo altri due anni, credendo di aver sentito la vocazione a diventare io stessa una focolarina, mi sono recata in Italia, vicino Firenze, in un centro di formazione internazionale per futuri focolarini (1996).
Avevo 27 anni.
Ho abbandonato il focolare a 38 anni; non avevo ancora preso i voti perpetui di povertà, castità e obbedienza – lo si faceva solo se la responsabile gerarchica del movimento era sicura che avevamo la maturità per farlo (non prima di aver trascorso otto anni di vita comune da focolarina all’interno di un focolare).
Nonostante il mio lato ingenuo, avevo uno spirito piuttosto critico e avevo notato varie cose che mi sembravano «strane». Ecco qualche esempio: durante i grandi raduni internazionali in un centro di formazione (noto come centro Mariapolis) a Castel Gandolfo, potevamo scrivere delle lettere alla fondatrice Chiara Lubich. Avevo sigillato la mia lettera in una busta senza mostrarla alla mia superiora, che invece avrebbe voluto leggerla. Lì per lì trovavo che la cosa non fosse molto corretta, perché si trattava di una corrispondenza personale, ma poiché non avevo niente da nascondere, da quel momento ho sempre mostrato le lettere che scrivevo – la superiora spiegava che condividere la corrispondenza era un modo per vivere «più in unità» e che permetteva di « far crescere Gesù in mezzo a noi ».
In un’altra occasione ho dovuto riscrivere alcune frasi – anche se così riformulate non riflettevano più il mio stato d’animo – perché in questo modo Chiara avrebbe potuto capire meglio ciò che volevo esprimere. Si trattava di un modo per verificare se il loro indottrinamento stava funzionando e se stavano riuscendo a plasmarci con il loro stampo. Stessa cosa per quanto riguarda la corrispondenza che ricevevamo da parte di familiari o amici. Bisognava rivelare tutto.
La mia superiora non si faceva alcuno scrupolo di fare dei commenti. Ecco qualche esempio: mi trovavo presso il centro di formazione internazionale (un periodo di due anni durante il quale, salvo in caso di forza maggiore, non ci era permesso di tornare a fare visita alle nostre famiglie) e intrattenevo una fitta corrispondenza epistolare con mia madre.
Doveva farsi operare agli occhi (cataratta) e, siccome ero infermiera, mi descriveva i suoi disturbi visivi. La mia superiora, a cui avevo mostrato la lettera, ha concluso che mia madre era affetta da turbe psichiche. In un’altra occasione mia madre mi aveva confidato per telefono che era preoccupata per mio fratello; la mia superiora trovava che mia madre stesse esagerando e diceva che non bisognava tenere il telefono occupato tanto a lungo, perché altrimenti avremmo rischiato di perdere telefonate importanti.
Un’amica mi aveva chiesto un consiglio, perché intendeva chiedere il divorzio a suo marito, che la tradiva. La mia superiora mi suggeriva di farle capire che separarsi dal marito era commettere un peccato; ovviamente alla mia amica non ho mai detto niente del genere. L’ho semplicemente ascoltata, rispettando la sua scelta.
In questo contesto, cito anche qualche esempio di come ci obbligavano a influenzare il pensiero e la scelta nelle nostre missioni di apostolato : mi avevano affidato un gruppo di bambini di età compresa tra i nove e i dodici anni.
Nel corso di un incontro organizzato, una bambina, anziché prendervi parte, aveva scelto di andare a nuotare con la sua migliore amica; io l’ho lasciata libera di scegliere, ma la mia superiora mi ha rimproverato. Secondo lei, dovevo farle capire che non aveva fatto «piacere a Gesù» rinunciando a venire all’incontro.
Varie volte, di ritorno dagli incontri con i bambini, la mia superiora mi chiedeva se c’erano nuove bambine. Perché non avevano invitato le loro amichette ? Rispondevo di no, e allora lei mi faceva capire che non stavo facendo bene il mio lavoro di evangelizzazione.
Una ragazza in procinto di terminare gli studi e che stava insieme a un ragazzo mi ha confidato che intendeva sposarsi con lui. I miei superiori non vedevano quest’unione di buon occhio, in quanto, secondo loro, il progetto di Dio per lei non era quello di sposarsi, ma di diventare una focolarina. Non mi è mai piaciuto dire agli altri cosa devono o non devono fare, e quindi non ho mai adottato questo metodo.
Io stessa volevo rimanere completamente libera di fare le mie scelte, ed è per questo che rispettavo sempre le scelte degli altri, senza giudicarle. A quanto pare, agli occhi dei miei superiori non valevo granché come evangelizzatrice, in quanto non reclutavo mai nuovi adepti.
Questi atteggiamenti mi hanno sempre dato fastidio, ma ero pronta a perdonarli dicendomi che in fondo anche loro erano esseri umani e che potevano sbagliare. Ma le mie superiore erano molto meno comprensive nei miei confronti: dovevo ancora maturare… quindi certe riflessioni me le tenevo per me…
Nel focolare dovevamo fare mezz’ora di meditazione tutti i giorni. Non potevamo scegliere su cosa meditare: si trattava sempre di scritti della fondatrice o di registrazioni (audio o video, CD).
Una volta alla settimana ci riunivamo per condividere esperienze e stati d’animo. All’inizio non avevo problemi a raccontare ciò che capivo e ciò che provavo: dicevo liberamente quello che pensavo. Ma con il passare dei mesi e degli anni la superiora ti «corregge» il linguaggio; inizialmente in modo leggero, dicendo: « Si sente che fai parte del focolare ancora da poco tempo, perché hai un linguaggio mondano». Dopo un po’ di tempo, il tono cambia : «Bada a quel che dici, che è quasi un’eresia ! »
Così adottavamo un gergo tipico e durante i momenti di condivisione – la cosiddetta comunione d’anima – cercavamo di utilizzare le parole che la nostra superiora voleva sentire…
Ero ancora a Lussemburgo quando, in uno slancio di generosità, ho donato una parte dei miei vestiti. Non erano vestiti firmati, ma erano ancora buoni. Avevo precisato che intendevo donarli ai bisognosi: mi ha sorpreso, ma soprattutto mi è dispiaciuto, ritrovarli nella soffitta di un focolare, in una scatola che serviva a mascherarsi – in seguito mi hanno spiegato che tutto quello che si donava doveva essere in perfette condizioni, perché è come se lo si donasse a Gesù, e a Lui non si donano cose di «basso livello»…
Un giorno, in uno slancio di grande generosità, ho ritirato tutti i soldi che avevo sul conto corrente – ed era una bella somma – e li ho donati al responsabile del movimento. Non ho mai saputo che destinazione abbiano dato a quei soldi; mi limito a constatare che nei vari focolari sparsi in tutto il mondo non manca mai nulla, sono anzi sistemati in modo confortevole, pur senza essere lussuosi. Se si doveva accogliere una persona benestante, infatti, bisognava che si sentisse a suo agio, perché fosse poi più facile conquistarla e costruire sempre di più « un mondo unito ».
Durante gli anni in cui ho fatto parte della comunità, ho sempre donato tutto il mio stipendio, dovevo rendere conto di ogni centesimo che spendevo e anche come lo spendevo. Ma in cambio non sapevo mai nulla di come venissero spesi i soldi che versavo. «Viviamo in comunione dei beni», era la risposta alla mia domanda.
In una comunità di quattro o cinque persone eravamo in tre o quattro a versare uno stipendio alla comunità: non potevo scegliere come vestirmi, come pettinarmi, cosa leggere – tutto era imposto dalla superiora della gerarchia; mi facevano credere che ero io a scegliere, ma mi accompagnavano nei negozi e nei reparti che volevano loro. Se per disgrazia sceglievi qualcosa che ti piaceva davvero, loro trovavano il modo di farti capire che era una cattiva scelta : « Questo non rispecchia l’unità tra di noi, non ti vesti come avrebbe fatto Maria (la madre di Gesù) al tuo posto »…
A forza di sentire sempre la solita solfa, si finisce ben presto per adottare un’idea. Se non ti adatti subito e vuoi imporre la tua scelta, vieni rimproverata e umiliata: «Sei tenuta a obbedire perché hai fatto voto d’obbedienza; non hai ancora capito il senso della vita con Gesù in mezzo, non hai ancora la maturità per poter giudicare da sola cosa è bene e cosa non lo è.»
Nella nostra comunità (il focolare) facevamo regolarmente « l’ora della verità » : è in quei momenti che ci dicevano ciò che avevamo fatto di bene o di male, ed è così che eravamo plasmate per entrare nello stampo…
Per tornare ai soldi: mi occupavo dell’evangelizzazione delle bambine e dovevo organizzare un viaggio a Roma con loro. La mia superiora mi ha rimproverato dicendomi che avevo sbagliato i calcoli: avrei dovuto far pagare un sovrapprezzo a ogni bambina per coprire le mie spese di viaggio. Ma come? Io stessa lavoravo e versavo ogni mese un buono stipendio alla comunità; per me era un furto. Ovviamente questa riflessione l’ho tenuta per me…
Ad ogni compleanno, i miei genitori mi regalavano dei soldi per comprarmi ciò di cui avevo bisogno: ero tenuta a versarli al focolare. Una sera tardi, la superiora è entrata in camera mia chiedendomi di farle subito un assegno per l’ammontare del mio stipendio: avevo superato di due giorni la data prevista per effettuare il versamento… Ho avuto l’impudenza di chiedere se non potevo tenere un po’ di soldi sul mio conto e prendere una carta bancaria per ritirare qualche somma in caso di bisogno. Che razza di idea mondana!!!…
Quando è arrivato Internet, non ci era permesso di utilizzarlo. Non si sa mai cosa si trova. Stessa cosa per i cellulari. Per me che avevo dei contatti esterni – esercitavo infatti la mia professione – ciò creava una differenza tra me e i miei colleghi di lavoro. «Certo che quella ha delle strane idee!», pensavano loro.
Grazie al mio spirito aperto e alla mia giovialità, ho sempre saputo mantenere un buon rapporto con i colleghi di lavoro, ma poiché non riuscivo a conquistarli o a farli partecipare alle nostre attività, per quelli che abitavano con me queste relazioni erano del tutto prive di interesse, era tutto tempo perso…
Ho dovuto quasi supplicare per poter partecipare a due serate al ristorante con i miei colleghi. Al momento di lasciare il mio posto di lavoro (i miei superiori mi avevano trasferita in un altro focolare e quindi ho dovuto licenziarmi), i miei colleghi una sera avevano organizzato una festicciola nella mensa dei dipendenti. Sono rientrata alle una di notte e la mia superiora era furibonda… Come osavo farle una cosa simile? Non ho mai capito il perché di tanta collera. A quanto pare era in pensiero per me… Oggi dico che non si fidava affatto di me e che era invidiosa, perché sapeva benissimo dov’ero e con chi.
Vivendo in queste condizioni per anni e anni, anche le mie amiche più intime si allontanavano sempre di più da me, perché non ero più la stessa. Idem per quanto riguarda la mia famiglia. Mia madre era l’unica che appoggiava la mia scelta, mentre mio fratello e mia sorella non perdevano mai l’occasione di lanciarmi qualche frecciata velenosa durante le rare visite in famiglia. Mi era concesso di far visita alla mia famiglia solo se non avevo altri obblighi nel focolare.
Quando vivevo in Belgio (la mia famiglia è in Lussemburgo), già la distanza metteva un freno alle mie visite in famiglia: una volta all’anno a Natale. Ma anche quando mi hanno trasferita al focolare del Lussemburgo continuavo ad andare a trovarli solo raramente. Avrei potuto vederli più spesso se anche loro fossero stati membri del movimento. Allora avrei potuto vederli in occasione degli incontri del movimento…
Quando andavamo tutte a trovare una mamma che faceva parte del movimento potevamo chiamarla «mammina», perché era un po’ come la nostra madre. Se per caso tutto il focolare si recava in visita da mia madre, le facevano credere che aveva acquisito altre figlie rinunciando alla sua vera figlia che aveva scelto di entrare nel focolare. È una teoria che non mi ha mai convinta, ma che di certo lusinga i cuori delle madri le cui figlie sono lontane…
Tutte le sere dovevamo compilare una scheda: bisognava mettere delle crocette su delle caselle se avevamo fatto le preghiere del mattino e della sera, se avevamo recitato il rosario, se avevamo fatto la meditazione, se eravamo andate a messa, se ci eravamo lavate, a che ora ci eravamo coricate e alzate, se avevamo assunto farmaci e quali. Se il nostro apostolato aveva dato frutto, scrivevamo gli indirizzi delle persone e i loro numeri di telefono per poter successivamente compilare la scheda, in cui dovevamo anche dire se avevamo speso dei soldi e per cosa, e chi avevamo come corrispondenti.
Questa scheda dovevamo consegnarla alla nostra superiora. Se c’erano degli spazi vuoti, dovevamo aspettarci un bel rimprovero e una riflessione del tipo : « Sei ben lungi dall’essere una focolarina modello. Come pretendi di conquistare altre anime per far sì che il mondo sia sempre più unito ? »
Ho sempre creduto di avere una vocazione; ero convinta che Dio mi avesse chiamata per diventare focolarina. Ancora oggi sono sicura di avere una vocazione, perché non ho perso la fede; solo che oggi guardo ad essa in modo completamente diverso. Tornerò in seguito su questo punto.
Quindi facevo di tutto per rientrare in quello stampo al quale le mie superiore volevano che mi adattassi. Mi sono impegnata talmente a fondo da sfociare in una frenesia che nel giro di vari anni mi ha portato all’esaurimento.
Per le mie superiore si trattava della purificazione mandatami da Dio per farmi diventare una migliore focolarina; per me era l’ambiente che frequentavo ad avermi ridotto in quello stato. Sono stata inviata dal medico, al quale ho raccontato quello che i miei superiori mi avevano detto di raccontare: non bisognava assolutamente dire che vivevo in una comunità, perché il medico non avrebbe capito e mi avrebbe detto di lasciarla…
Il medico mi ha prescritto degli antidepressivi e un ritmo di vita più calmo, cosa non molto gradita nel focolare in cui abitavo… Fortunatamente la mia superiora gerarchica – la responsabile del movimento del Belgio e del Lussemburgo – capiva perfettamente ciò che stavo vivendo, ma non poteva fare granché, perché sottoposta al controllo del responsabile centrale del movimento, con sede a Roma (dove abitava la fondatrice, all’epoca ancora viva, ma molto malata). Lei stessa si trovava in una situazione in cui doveva fare una scelta: quella di lasciare o meno il movimento (allora non ero al corrente della sua situazione).
Ero indignata all’idea di assumere farmaci, in quanto la causa del mio malessere era esterna. Non aveva più niente a che vedere con una purificazione divina. Era il mio essere che lanciava un segnale d’allarme, perché c’erano delle cose che non andavano più bene. La mia psiche si rifiutava di farsi massacrare e divorare da esseri dalla mente contorta.
Ovviamente non ho espresso i miei pensieri, perché ero convinta che fosse solo il focolare in cui vivevo che non funzionava bene e che forse negli altri focolari le cose sarebbero andate in modo diverso.
La mia superiora gerarchica, quella che mi capiva e a cui confidavo alcuni dei miei pensieri, mi faceva capire che avevo ragione. Ma vedevo che anche lei aveva le sue preoccupazioni, e non volevo darle un ulteriore peso… quindi stavo zitta e prendevo i farmaci. Ad ogni modo la cosa mi calmava, perché mi sentivo già meno tesa… Dopo vari mesi non era cambiato niente nell’ambiente che frequentavo, le ostilità persistevano. Per la mia superiora, l’esaurimento era solo una scusa che accampavo per non fare gli sforzi necessari per diventare una « migliore focolarina ».
Poiché non sono il tipo che va a lamentarsi «più in alto», ho mantenuto a lungo il silenzio, fino al momento in cui ho sorpreso la mia superiora che si lamentava del mio comportamento con una persona al telefono. Mi sono sentita tradita, peggio ancora, violentata nell’intimo, in quanto si trattava del mio stato d’animo. È stata l’unica volta che ho contattato la superiora gerarchica per chiederle consiglio. Due o tre mesi dopo, questa stessa superiora – responsabile del movimento in Belgio e Lussemburgo – abbandonava il movimento, come pure le altre tre focolarine che abitavano con lei.
In una lettera del febbraio 2007, spiega i motivi che l’hanno indotta a prendere questa decisione e denuncia anche degli abusi in seno al movimento.
Era un momento importante, per me addirittura decisivo, in quanto con questo gesto era come se si alzasse un velo sui dubbi che abitavano nel mio subconscio e che riguardavano gli intrallazzi del movimento.
Ovviamente non ci invitava a fare altrettanto, e io non l’ho mai interpretato in questo senso, ma la maggior parte delle focolarine l’hanno interpretato come un tradimento. Io lo vedevo piuttosto come un segno di Dio, un avvertimento: era giunto il momento di riflettere e di correggere un certo modo di fare, di cambiare rotta.
Ne ho parlato con le mie superiori e anche con la nuova responsabile del movimento.
È in quel momento che hanno cominciato a interrogarmi più a fondo, e vedendo che difendevo le mie opinioni e che non concepivo l’abbandono di queste focolarine come un tradimento, mi hanno tenuto sempre più in disparte e mi hanno reso la vita ancor più dura: anche malata con la febbre, dovevo alzarmi e fare le faccende domestiche, per andare dal medico si rifiutavano di darmi la macchina, non avevo più il permesso di andare a trovare i miei genitori, criticavano il modo in cui lavavo i piatti (secondo loro non lo facevo con amore)… e tante altre piccole cose che mostravano quanto fosse caduta in basso la nostra vita comunitaria.
Ho subito delle «ore della verità» angosciose, in cui l’odio delle mie coinquiline era palpabile – tutto ciò perché vedevo nell’abbandono di queste focolarine un segno di Dio.
La decisione di abbandonare il focolare l’ho presa dopo che la mia nuova superiora gerarchica mi aveva ancora una volta rimproverato e mi aveva avvertito per l’ultima volta che dovevo cambiare atteggiamento.
Quella notte mi sono addormentata solo dopo aver avuto la certezza che nessuno aveva il diritto di violare in quel modo quanto avevo di più caro: la mia coscienza, dove risiedeva il mio vero Io.
Ho sentito l’amore di Dio: Lui mi diceva che mi amava per come ero e che nessuno dall’esterno aveva il diritto di toccare questo tesoro.
È così che ho maturato la decisione e che ho abbandonato il focolare.
Allora ho cominciato ad ascoltare di nuovo la voce della mia coscienza, senza più badare a quello che gli altri mi dicevano di fare. Avevo la certezza che la mia coscienza fosse abitata dall’amore di Dio, ero tornata a credere che Dio ci ha creati liberi, mentre il movimento riduceva i suoi membri a delle marionette. Ed è stata la mia coscienza a guidarmi: pregavo di nuovo a modo mio quando ero sola la sera o in chiesa, ed è così che ho capito come fare per valutare la bontà della mia decisione.
Mi ero subito trovata un piccolo appartamento e avevo preso appuntamento con la nuova responsabile del movimento per discutere delle mie azioni: lei mi ascoltava per educazione e non esprimeva mai chiaramente quello che pensava; forse non pensava niente, in quanto in casi come il mio il centro di Roma lascia che le persone partano sperando che non sollevino un gran polverone. Anche lei, in fondo, è solo una pedina manovrata come una marionetta.
Mi sono rivolta anche più in alto nella gerarchia: ho telefonato al centro di Roma per parlare alla responsabile di tutte le focolarine del mondo, con lo stesso risultato: mi ha ascoltato gentilmente, ma la mia esperienza personale non la interessava affatto. Secondo lei avevo perso la vocazione a essere focolarina.
Ho ben presto tratto le conclusioni: la chiamata di Dio che avevo sentito anni prima non corrispondeva più affatto con « l’essere focolarina ». Queste due realtà sono distanti anni luce. La conclusione a cui ero giunta era un gran sollievo, e non solo : il mio cuore e la mia anima sono stati invasi da una grande pace.
Per un certo periodo ho continuato ad andare a messa la domenica e a nutrirmi spiritualmente con libri di meditazioni. Attualmente ho smesso di farlo. Ho raggiunto il limite, non ne potevo proprio più. Ho l’impressione di poter vivere ancora varie vite senza andare mai più a messa, senza il nutrimento spirituale e dell’eucaristia; con tutto quello che ho fatto seguendo i dettami della Chiesa cattolica, mi sono già guadagnata un posto in paradiso…
Gli scandali legati alla pedofilia e agli abusi sessuali negli ambienti ecclesiastici in questi ultimi anni mi hanno fatto riflettere a lungo sulla credibilità della Chiesa cattolica. Anche il Vaticano è invischiato nel riciclaggio di denaro, quindi ho deciso di volgere le spalle alla Chiesa cattolica. Mi è capitato di assistere a una messa di matrimonio e a un’altra di funerale in cui il sacerdote è riuscito a toccarmi l’anima e il cuore; la cosa mi rallegra, perché vedo che c’è ancora gente di Chiesa che sa mettere in relazione la parola di Gesù con la nostra vita terrena attuale. È su questo elemento che oggi riposa la mia fede: l’amore che Gesù ha mostrato e donato come esempio da seguire.
I dogmi sulla Trinità e sulla verginità di Maria non mi interessano più. Sono solo motivo di dispute e non fanno che creare divisioni. Una perdita di tempo…
L’essenza della mia fede è rimasta immutata, ma la forma non ha più importanza. La chiamata di Dio a seguire l’insegnamento di Gesù era reale e abita ancora oggi nel mio cuore.
Cerco di vivere la sua chiamata nel quotidiano con i miei cari e con i miei colleghi di lavoro, perfino durante le occasioni di svago (ho ripreso il teatro), in mezzo al traffico quando vado al lavoro…
In cambio ricevo moltissimo: basta aprire gli occhi e il cuore per accoglierlo. »
« Laurette », ex-Focolarina (Opera di Maria/Movimento dei Focolari), 15 gennaio 2013
Per firmare la petizione su Change.org contro il clericalismo e i suoi eccessi settari : http://urlz.fr/81n9 – Tutti i dettagli sul mio blog : http://urlz.fr/83dk
TÉMOIGNAGE
« Je vais essayer d’écrire mon expérience dans le mouvement avec le regard d’aujourd’hui. Cela fait 5 ans que j’ai quitté le focolare et depuis je vis à nouveau une vie normale avec les petits bonheurs et aussi malheurs qui colorient ma vie de tous les jours. J’ai un autre regard sur mon passé ; j’ai comme l’impression que j’ai vécu toutes ces années (au focolare) dans un coma et qu’un événement a déclenché ma reprise de conscience réelle de ma vie.
Pendant mes années au focolare, je n’étais plus moi ; au fil des années les supérieurs hiérarchiques ont réussi à anéantir ma vraie personnalité, mais pas à la faire mourir complètement – et cela a sauvé ma vie et mon vrai moi. Parfois je m’en veux de m’être laissée piéger dans ce mouvement, car j’ai laissé tomber beaucoup de mes projets, mais cela fait partie de ma vie. Grâce à ma forte personnalité et mon esprit critique j’ai su m’en sortir au bon moment et retrouver mon vrai Moi que je suis à nouveau maintenant.
Il faut savoir que le mouvement des focolari et la vie au focolare sont présentés vis-à-vis de l’extérieur comme une forme de vie basée sur l’enseignement de Jésus, mais moderne : nous vivons dans des maisons, nous travaillons, nous faisons du sport, de la politique, des loisirs, etc. Bref, nous nous fondons dans la masse.
C’est cette idée-là qui m’a attirée, mais une fois dans les mailles du filet il est plus difficile de s’extirper. Même si j’étais pendant 9 ans plongée dans une vie communautaire dans un focolare, le fait que j’exerçais ma profession me laissait une porte ouverte vers l’extérieur, je restais en contact avec le monde d’aujourd’hui. Ceci m’a permis de garder mon esprit critique ouvert, même si c’était limité, car on était censé évangéliser notre milieu de travail par notre façon de faire et de vivre
J’ai adhéré au mouvement à l’âge de 22 ans lors du JMJ en Pologne (1991) pour lequel j’étais invitée avec beaucoup d’autres jeunes. Puisque depuis toujours j’avais une foi solide – j’allais régulièrement à la messe, mais aussi mon action dans le quotidien avec mon entourage était « guidée » par cette foi qui surgissait de mon cœur et de ma conscience -, je me sentais vraiment très à l’aise avec tous ces jeunes.
Le petit plus était que j’avais trouvé des personnes avec qui je pouvais partager et discuter ma foi. Évidemment après ce voyage je voulais rester en contact avec ces personnes et la cerise sur le gâteau était que je pouvais continuer à voir mes amis et mes loisirs sans contrainte : je faisais du théâtre, des sorties en boîte avec mes amies, mes voyages, mon job que j’avais toujours rêvé de faire – je cite ceci, car lors de notre voyage, des jeunes du mouvement nous racontaient leurs expériences de vie, dans laquelle ils nous racontaient leurs actes héroïques en renonçant à toute sorte de choses pour suivre Jésus et construire un monde uni.
Donc pour moi m’entendre dire par les personnes responsables (les focolarines) que je n’avais pas besoin de renoncer à quoi que ce soit pour adhérer à leur mouvement, c’était vraiment la cerise sur le gâteau.
Mais puisque j’avais une foi solide, et les focolarines l’avaient compris très vite, elles ont réussi petit à petit à bien me connaître pour pouvoir me « capturer » pour leur cause. J’explique : j’avais soif de pouvoir partager plus sur la vie de Jésus et donc elles m’invitaient à des rencontres d’approfondissement.
En même temps, j’aimais l’action, la vie et donc je participais à des actions avec les jeunes pour trouver de l’argent pour des gens en difficultés, etc. Je suis quelqu’un de généreux, et puisque je gagnais bien ma vie je donnais volontiers mon argent pour une bonne cause. Je suis quelqu’un de très ouvert, je dis ce que je pense, mes convictions, mes sentiments, je fais très vite confiance dans la bonté de l’autre – bref j’étais très naïve en ce qui concerne les relations humaines à l’époque, surtout que je considérais les personnes du mouvement du bon côté du camp… Tous ces éléments les focolarines les ont utilisés pour me cuisiner au bain-marie. Au bout de 2 ans, elles ont réussi : j’ai quitté de moi-même ma famille, mon travail, mes loisirs, mes amies, ma patrie, pour me consacrer entièrement au mouvement.
Après 2 ans encore, j’ai cru avoir la vocation d’être moi-même une focolarine, donc je suis partie en Italie, près de Florence dans un centre de formation internationale pour devenir focolarine (1996). J’avais 27 ans. J’ai quitté le focolare à 38 ans ; je n’avais pas encore fait mes vœux perpétuels de pauvreté, chasteté et obéissance – on le faisait que si le responsable hiérarchique du mouvement était sûr que tu avais la maturité de les faire (pas avant 8 ans de vie commune comme focolarine dans un focolare).
Même si j’avais un côté naïf, j’avais un esprit assez critique et différentes choses me semblaient « bizarres ». Je cite ici quelques exemples : lors de grandes rencontres internationales dans un centre de formation (appelés centre Mariapolis) à Castel Gandolfo, on pouvait écrire des lettres à la fondatrice Chiara Lubich. J’avais fermé ma lettre dans une enveloppe sans la montrer à ma supérieure – elle aurait voulu la lire aussi. Sur le moment je ne trouvais cela pas très correcte, car je trouvais que cette correspondance était personnelle, mais puisque je n’avais rien à cacher, depuis j’ai toujours montré mes lettres – elle expliquait que partager la correspondance était une façon de vivre « plus en unité » et qui permettait de « faire grandir Jésus au milieu de nous ».
Une autre fois j’ai dû réécrire certaines phrases – même si elle ne correspondait plus avec mon état d’âme –, car ainsi Chiara pourrait mieux comprendre ce que je voulais exprimer. Ceci était une façon de voir si leur endoctrinement fonctionnait et s’ils arrivaient à nous façonner à leur moule. De même avec la correspondance qu’on recevait de la part de notre famille ou amis. Il fallait tout montrer.
Ma supérieure ne se gênait pas du tout à faire des commentaires, voici des exemples : j’étais au centre de formation international (pendant 2 ans et durant lesquels nous n’avons pas le droit de rentrer dans notre famille, sauf en cas de force majeure) et je correspondais souvent par lettre avec ma mère.
Elle devait se faire opérer des yeux (cataracte) et puisque je suis infirmière, elle me décrivait ses troubles de vue. Ma supérieure, à laquelle j’avais montré ma lettre, concluait que ma mère avait des troubles psychiques.
Une autre fois, ma mère m’avait confié par téléphone les soucis qu’elle se faisait pour mon frère ; ma supérieure trouvait que ma mère exagérait et qu’il ne faut pas tenir aussi longtemps la ligne téléphonique occupée, car on empêchait ainsi d’avoir des coups de fil importants.
Une amie m’avait demandé conseil, car son mari l’avait trompée et elle envisageait le divorce. Ma supérieure suggérait de lui faire comprendre que se séparer de son mari était un péché ; évidemment je ne lui ai rien suggéré de tel. Je l’ai simplement écouté et respecté son choix.
Dans ce contexte je cite aussi quelques exemples sur la manière dont on nous obligeait d’influencer la pensée et le choix lors de nos contacts quand on faisait de l’apostolat : on m’avait confié un groupe d’enfants de l’âge entre 9 et 12 ans.
Lors d’une rencontre organisée, une fille avait fait le choix de ne pas venir à la rencontre, mais d’aller nager avec sa meilleure amie – je lui ai laissé cette liberté, mais ma supérieure m’a réprimandée. Selon elle je devais lui faire comprendre qu’elle n’avait pas fait « plaisir à Jésus » en renonçant à la rencontre.
Plusieurs fois en revenant des rencontres avec les enfants, ma supérieure me demandait s’il y avait de nouveaux enfants. Pourquoi n’avaient-ils pas invité leurs amis ? Je répondais que non et alors elle me faisait comprendre que je ne faisais pas bien mon travail d’évangélisation. Une jeune fille à la fin des études et qui avait un petit ami m’a confié qu’elle voulait se marier avec lui. Cela n’était pas bien vu, car selon mes supérieurs la volonté de Dieu pour elle était de devenir focolarine, donc ne pas se marier. Je n’ai jamais aimé faire des suggestions aux autres, et donc je n’ai jamais adopté cette méthode.
Moi-même je voulais garder le libre arbitre de mes choix, et donc je respectais toujours sans jugement le choix des autres. Évidemment aux yeux de mes supérieurs je ne valais pas grand-chose en ce qui concerne l’évangélisation, car je ne ramenais jamais de nouveaux adeptes.
Ces attitudes m’ont toujours dérangée, mais je les excusais en me disant qu’elles aussi n’étaient que des humains et avaient droit à l’erreur. Seulement mes supérieures étaient moins bienveillantes envers moi : je devais encore mûrir… Donc certaines réflexions je les gardais bien pour moi…
Au focolare nous devions faire méditation tous les jours pendant une demi-heure. On n’avait pas le choix sur quoi méditer : c’était toujours des écrits de la fondatrice ou des enregistrements (audio ou vidéo, cd).
Une fois par semaine, nous nous réunissions et nous partagions nos expériences et états d’âme. Au début je n’avais aucun mal à raconter ce que je comprenais et ressentais, je disais librement ce que je pensais, mais au fil des mois et années la supérieure « corrige » ton langage ; au début de façon légère en disant : « on entend que tu ne fais pas encore partie depuis longtemps du focolare, car tu as un langage mondain. » Après un certain temps en disant : « fais attention à ce que tu dis, car c’est à la limite de l’hérésie ! »
Ainsi on adoptait un jargon typique et pendant les partages – les soi-disant communions d’âme – on veillait à utiliser les mots que notre supérieure aimait entendre…
J’étais encore au Luxembourg et dans un coup de générosité, j’avais donné une partie de mes habits. Ce n’était pas des habits de marques, mais en bon état. J’avais précisé que je voulais les donner pour ceux qui en avaient besoin : j’étais surprise, mais surtout déçue de les retrouver dans un grenier d’un focolare dans une boîte qui servait à se déguiser – plus tard on m’a expliqué que tout ce qu’on donnait, devait être impeccable, car c’est comme si on le donnait à Jésus, et à Lui on ne donnait pas du « bas de gamme » …
Un jour, dans un élan de grande générosité, j’ai retiré tout l’argent de mon compte d’épargne – et c’était une grosse somme d’argent – et je l’ai donné au responsable du mouvement. Je n’ai jamais su ce qu’ils ont financé avec cet argent, je constate juste que les différents focolaris situés dans le monde entier ne manquent de rien, sont même confortablement aménagés sans être luxueux – car si on devait accueillir une personne aisée, il fallait qu’elles se sentent à son aise, pour ainsi faciliter la tâche de la conquérir pour construire toujours plus « un monde uni ».
Pendant les années où moi-même je faisais partie de la communauté, j’ai toujours donné l’intégralité de mon salaire, je devais noter chaque centime que je dépensais et aussi en quoi je le dépensais. En revanche, je ne savais jamais à quoi mon argent était dépensé. « Nous vivons la communion des biens », c’était la réponse à ma question.
Dans une communauté de 5 ou de 4, on était à 4 ou à 3 à ramener un salaire dans une communauté : je ne pouvais pas choisir mes habits, ma coiffure, mes livres que je voulais lire – tout était choisi par la supérieure hiérarchique ; on me faisait croire que c’était moi qui choisissais, mais on m’accompagnait dans les magasins et dans les rayons de leur choix. Si par malheur tu choisissais quelque chose qui te plaisait vraiment, elles trouvaient la façon de te faire comprendre que c’était un mauvais choix « cela ne reflète pas l’unité entre nous, tu ne t’habilles pas comme Marie (la mère de Jésus) l’aurait fait si elle était à ta place »…
À force d’entendre toujours le même refrain, on adopte vite une idée. Si tu ne t’adaptes pas tout de suite et que tu veux imposer ton choix, tu es réprimandé et humilié « tu es censé à obéir, car tu as fait vœux d’obéissance ; tu n’as pas encore le sens de la vie avec Jésus au milieu, tu n’as pas encore la maturité de pouvoir juger par toi-même ce qui est bien ou pas ».
Régulièrement dans notre communauté (le focolare) nous faisions « l’heure de la vé- rité» ; c’est dans ces moments que l’on nous disait ce qui allait bien et pas bien avec nous – et c’est ainsi qu’on était forgé pour rentrer dans le moule…
Pour revenir à l’argent : je m’occupais de l’évangélisation des enfants et je devais organiser un voyage à Rome avec eux. Ma supérieure m’a réprimandé parce que j’avais fait un mauvais calcul : j’aurais dû faire payer à chaque enfant un surplus pour couvrir mes frais de voyage. Mais moi-même je travaillais et ramenais chaque mois un bon salaire à la communauté ; pour moi c’était du vol. Évidemment cette réflexion je l’ai gardée pour moi…
Pour chaque anniversaire, mes parents me donnaient de l’argent pour m’acheter ce dont j’avais besoin : il fallait que je le donne au focolare.
Tard un soir, ma supérieure est rentrée dans ma chambre pour que je lui fasse tout de suite un chèque de mon salaire – j’avais dépassé la date de 2 jours pour faire le versement… J’ai eu l’audace de demander si je ne pouvais pas garder un peu d’argent sur mon compte et prendre une carte bancaire pour pouvoir retirer de l’argent pour me dépanner en cas de besoin. Quelle idée mondaine !!! …
Quand internet est arrivé, nous n’avions pas le droit d’y aller. On ne sait jamais sur quoi on tombe. Pareil pour les téléphones mobiles. Ceci engendrait pour moi, qui avait des contacts extérieurs – car j’exerçais ma profession – une différence entre moi et mes collègues de travail. J’avais quand même des idées bizarres, pensaient-elles.
Grâce à mon ouverture d’esprit et ma jovialité, j’ai toujours su garder un bon contact avec mes collègues de travail, mais puisque je n’arrivais pas à les conquérir et à les faire participer à nos activités, pour ceux qui cohabitaient avec moi, ces relations n’avaient aucun intérêt, c’était plutôt du temps perdu…
J’ai dû presque supplier pour pouvoir participer à 2 soirées restaurants avec mes collègues de travail. Au moment de mon départ du travail (mes supérieurs m’avaient envoyé dans un autre focolare et donc j’ai dû démissionner), mes collègues avaient organisé un soir une petite fête dans la cantine du travail. Je suis rentrée à 1 heure du matin – ma supérieure était furieuse… Comment j’osais lui jouer un tour pareil ! Je n’ai jamais compris son excès de colère.
Apparemment elle était inquiète pour moi… Aujourd’hui, je dis qu’elle n’avait aucune confiance et elle était jalouse, car elle savait très bien où j’étais et avec qui.
En vivant ainsi pendant des années, même mes amies les plus proches s’éloignaient toujours plus de moi, car je n’étais plus la même. Pareil pour ma famille. Il y avait juste ma mère qui soutenait mon choix, mais mon frère et ma sœur trouvaient toujours un mot vexant à mon égard lors des rares visites en famille. Je pouvais aller en famille que si je n’avais pas d’autres obligations au focolare.
Quand j’habitais en Belgique (ma famille est au Luxembourg), déjà la distance mettait un frein à mes visites en familles – une fois par an pour Noël. Mais quand j’étais au Focolare du Luxembourg, mes visites en famille étaient quand même limitées. J’aurais eu plus de droits si ma famille était aussi membre du mouvement. Alors j’aurais pu les voir lors des rencontres du mouvement…
Quand on allait toutes rendre visite à une maman qui était membre du mouvement, on pouvait l’appeler « mammina », car elle était un peu comme notre mère. Si par chance tout le Focolare allait en visite chez ma mère, on lui faisait croire qu’elle avait acquis d’autres filles en renonçant à sa propre fille qui avait fait le choix de rentrer au Focolare. C’est une théorie qui ne m’a jamais convaincue, mais qui flatte sûrement le cœur des mères qui ont leur fille loin d’elles…
Tous les soirs nous devions remplir une fiche : il fallait cocher des cases si on avait fait les prières du matin, du soir, si on avait récité le chapelet, fait méditation, allé à la messe, si on s’était lavé, à quelle heure on c’était couché et levé, si on avait pris des médicaments et lesquels, si on avait fait de l’apostolat fructifiant nous mettions les adresses des personnes et leurs numéros de téléphone pour après remplir le fichier, dépensé de l’argent et pourquoi, avec qui on correspondait.
Cette fiche il fallait la remettre à notre supérieure. S’il y avait des trous on avait droit d’une bonne réprimande et une réflexion du genre : t’es loin d’être une focolarine modèle. Comment veux-tu conquérir d’autres âmes pour que le monde soit toujours plus uni ?
Je croyais toujours que j’avais une vocation ; j’étais persuadé que Dieu m’avait appelé pour devenir focolarine – encore aujourd’hui je suis sûre que j’ai une vocation, car je n’ai pas perdu ma foi, seulement aujourd’hui j’ai un tout autre regard en ce qui concerne ma foi.
J’en reviens plus tard – donc je me donnais beaucoup de peine pour rentrer dans ce moule que les supérieures coulaient pour moi. Je me donnais tellement de mal que je suis rentrée dans une frénésie qui au bout de plusieurs années j’ai fait un burn-out.
Pour mes supérieures c’était la purification que Dieu m’envoyait pour que je devienne une meilleure focolarine ; pour moi c’était mon entourage qui m’avait poussé à bout. J’ai été envoyée chez le médecin à qui j’ai raconté ce que mes supérieurs m’avaient dit de raconter : surtout il ne fallait pas dire que je vivais dans une communauté, car le médecin n’allait pas comprendre et il me dirait de quitter la communauté…
Le médecin m’a prescrit des antidépresseurs et un rythme de vie plus calme. Ceci n’était pas bien vu dans le Focolare où j’habitais… Heureusement ma supérieure hiérarchique – la responsable du mouvement de la Belgique et du Luxembourg – comprenait exactement ce que je vivais, seulement elle ne pouvait pas faire grand-chose, car elle était sous contrôle des responsables centraux du mouvement qui siège à Rome (où vivait la fondatrice – elle était toujours en vie à cette époque, mais très malade). Elle-même se trouvait dans une situation où elle devait faire le choix de quitter ou non le mouvement (j’ignorais à ce moment-là sa propre situation).
J’étais révoltée de prendre des médicaments, car la cause de mon mal-être était extérieure. Cela n’avait plus rien à voir avec une purification divine. C’était mon être qui donnait un signal d’alarme, car il y avait des choses qui ne tournaient plus rond. Mon psychisme refusait de se faire massacrer et dévorer par des êtres qui avaient l’esprit tordu.
Évidemment je n’ai pas exprimé mes pensées, car j’étais convaincue que c’était seulement le Focolare dans lequel je vivais qui ne tournait pas rond, et que peut-être dans les autres Focolari cela serait différent.
Avec ma supérieure hiérarchique, celle qui me comprenait, je confiais des bribes de mes pensées et elle me faisait comprendre que mes pensées étaient justes. Seulement je voyais qu’elle aussi avait des soucis, donc je ne voulais pas lui mettre un fardeau en plus sur le dos… Donc je me taisais et je prenais mes médicaments.
En tout cas cela me soulageait, car je me sentais déjà moins tendue… Après des mois, rien ne changeait dans mon entourage, les hostilités persistaient. Pour ma supérieure, le burn-out était une excuse derrière laquelle je me cachais pour ne pas faire des efforts pour devenir « meilleure focolarine ».
Puisque je ne suis pas du genre à aller me plaindre « plus haut » j’ai longtemps gardé le silence, jusqu’au moment où j’ai surpris ma supérieure se plaindre de mon comportement avec une tierce personne par téléphone. Je me suis sentie trahie, même plus, violée dans mon intimité, car il s’agissait de mon état d’âme. C’était la seule fois où j’ai contacté la supérieure hiérarchique pour demander conseil… 2-3 mois plus tard, cette même supérieure hiérarchique responsable du mouvement en Belgique et Luxembourg -, quittait le mouvement et au même moment aussi les 3 autres focolarines qui cohabitaient avec elle.
Elle a expliqué dans une lettre de février 2007 les motivations qui l’ont poussée à faire ce choix et elle dénonce aussi des agissements abusifs au cœur du mouvement.
C’était un moment important, même un moment-clef pour moi, car avec sa démarche il y avait comme un voile qui se levait sur les doutes qui sombrait dans mon subconscient ; doutes concernant les agissements du mouvement.
Évidemment elle ne nous invitait pas à faire de même, et moi je ne l’ai jamais interprété ainsi – mais la majorité de focolarines l’a interprété comme une trahison.
Moi je le voyais plutôt comme un signe de Dieu, une mise en garde ; le temps était venu de réfléchir et de corriger certaines façons de faire, de changer de cap.
J’ai partagé mes pensées avec mes supérieures et aussi avec la nouvelle responsable du mouvement. C’est à ce moment qu’elles ont commencé à m’interroger plus et en voyant que je soutenais ma pensée et que je ne vivais pas le départ de ces focolarines comme une trahison, elles m’ont écarté de plus en plus et m’ont rendu la vie encore plus dure : même en étant malade avec de la fièvre, je devais me lever pour aller faire le ménage, pour me rendre chez le médecin on refusait de me donner la voiture, je n’avais pas le droit de rendre visite à mes parents, elles critiquaient ma façon de faire la vaisselle –selon eux je ne la faisais pas avec amour… plein de petits exemples qui montraient à quel bas niveau était tombée notre vie en communauté. J’ai subi des « heures de la vérité » pénibles où la haine de mes cohabitantes était palpable – tout ça parce que je voyais un signe de Dieu dans le départ de ces focolarines.
La décision de quitter le focolare je l’ai prise après que ma nouvelle supérieure hiérarchique m’avait à nouveau réprimandé et donné un ultime avertissement que je devais changer d’attitude.
Cette nuit-là, je n’ai fermé les yeux qu’après avoir eu la certitude que personne n’avait le droit de violer de cette façon ce que j’avais de plus cher : ma conscience où habitait mon vrai Moi.
J’ai senti l’amour de Dieu qui me suggérait que Lui il m’aimait telle que j’étais et que personne de l’extérieur n’avait le droit de toucher à ce trésor.
C’est ainsi que j’ai pris la décision et que j’ai fait les démarches pour sortir du focolare.
À ce moment-là j’ai recommencé à écouter ma conscience, et je n’écoutais plus ce que les autres me dictaient de faire. J’étais sûre que ma conscience était habitée par l’amour de Dieu – je croyais à nouveau que Dieu nous a créés comme des personnes libres, tandis que le mouvement faisait de ses membres des marionnettes. Et c’est ma conscience qui m’a guidée : je priais à nouveau à ma façon quand je me trouvais seule le soir ou dans une église et c’est ainsi que j’ai compris comment agir pour comprendre si je prenais la bonne décision.
J’avais vite trouvé un petit appartement pour moi, j’avais pris rendez-vous avec la nouvelle responsable du mouvement pour discuter de mes démarches : elle m’écoutait par politesse et ne disait jamais clairement sa pensée – peut-être elle n’en avait pas, car dans les cas comme les miens, le centre de Rome laisse partir les gens en espérant qu’ils ne fassent pas trop de ravages et polémiques – elle aussi n’est qu’un pion tenu comme une marionnette au bout d’un fil. Je suis allée même plus haut dans la hiérarchie : j’ai téléphoné au centre de Rome pour parler à la responsable de toutes les focolarines du monde : même scénario – elle m’écoutait gentiment et mon expérience personnelle ne l’intéressait guère. Selon elle je n’avais plus la vocation d’être focolarine.
J’avais très vite fait mes conclusions : mon appel de Dieu des années auparavant ne correspondait plus du tout avec « l’être focolarine ». Il y a des années-lumière entre ces deux réalités. Cette conclusion était un grand soulagement, même plus : une grande paix a envahi mon cœur et mon âme.
Pendant un certain temps, j’ai continué à aller à la messe les dimanches et aussi de me nourrir spirituellement avec des livres de méditations. Actuellement je ne le fais plus. Je suis tellement saturée, car j’étais littérairement gavée. J’ai l’impression de pouvoir vivre encore plusieurs vies sans fréquenter une seule messe, sans me nourrir de l’eucharistie et spirituellement, que j’en ai encore assez fait selon les règles de l’Église catholique pour être admise au paradis…
Ces dernières années les scandales de pédophilie et d’abus sexuels dans l’église me font beaucoup réfléchir sur la crédibilité de l’Église catholique. Même le Vatican est trempé dans le blanchissement d’argent, donc j’ai tourné le dos à l’Église catholique. Il m’est arrivé d’assister à une messe de mariage et aussi d’enterrement où le prêtre a su toucher mon âme et mon cœur ; cela me réjouit, car je constate qu’il y a encore des gens de l’église qui savent relier la parole de Jésus à notre vie d’humain d’aujourd’hui. C’est en cela que j’ai la foi aujourd’hui, l’amour que Jésus a montré et donné comme exemple à suivre.
Les dogmes sur la trinité, la virginité de Marie ne m’intéressent plus. C’est juste un argument de dispute pour se monter les uns contre les autres, une perte de temps…
L’essentiel, le cœur de ma foi n’a pas changé, mais la forme n’a plus d’importance. L’appel de Dieu de suivre l’enseignement de Jésus était bien réel, et habite encore aujourd’hui mon cœur. J’essaye de vivre son appel dans le quotidien avec mes proches et mes collègues de travail, même pendant mes loisirs (je fais à nouveau du théâtre), dans le trafic quand je me rends au travail…
Je reçois aussi tellement en retour, il suffit que j’ouvre les yeux et mon cœur pour l’accueillir. »
« Laurette », ex-Focolarine (ŒUVRE DE MARIE/FOCOLARI), 15 janvier 2013
Pour signer la pétition sur Change.org contre le cléricalisme et ses dérives sectaires: http://urlz.fr/81n9 – Tous les détails sur mon blog : http://urlz.fr/83dk
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Une réponse sur « « Laurette », ex-Focolarine (ŒUVRE DE MARIE/FOCOLARI). « Che tutti siano uno (?) » »